Film molto interessante: a volte le nostre vite rimangono bloccate (c’è una “pietra”, una scelta che sta bloccando la tua?). E in questi casi la responsabilità è nostra anche se non sempre riusciamo ad avere l’onestà di ammetterlo come invece fa il protagonista. E questo è il punto di partenza perché Aron riesca anche a dire un grazie sentito, in un momento in cui era al massimo del disagio e avrebbe dovuto solo essere arrabbiato, disperato, lamentoso. E invece no. Forse perché quando la vita si fa seria le priorità prendono il giusto ordine? E a proposito di priorità cosa permette al protagonista di non lasciarsi andare, se non ha tratti ed arrivare fino a compiere un gesto estremo per salvarsi la vita? Lasciarsi morire sarebbe stato più semplice una volta che la stanchezza, la fame, la sete e la disperazione sono al culmine. E invece lui ha un qualche motivo per lottare (molto belle le scene del divano e i sorrisi che le accompagnano). Quale potrebbe essere il tuo?

Tratto dal libro autobiografico di Aron Ralston Between a Rock and a Hard Place, e scritto da Danny Boyle (vincitore di 8 premi Oscar per The Millionaire ) in coppia con Simon Beaufoy (sceneggiatore premiato con l’Oscar per lo stesso film), è – secondo la definizione del regista – “un film d’azione dove l’eroe non si può muovere”. Una sfida, quella di raccontare le centoventisette ore del titolo – lasso di tempo in cui un masso tiene incastrato il protagonista in una profonda gola di un parco nazionale dello Utah – vinta soprattutto grazie al talento visivo di un regista dallo stile riconoscibile, ma capace di rinnovarsi film dopo film. Una sfida vinta con successo anche dal protagonista James Franco (attore in grande crescita e pronto ormai a fare il balzo nell’empireo di Hollywood: per questo film ha ricevuto la nomination all’Oscar) la cui interpretazione può essere paragonata a quella di Tom Hanks in Cast Away e di Emile Hirsch in Into the Wild, film con cui questo dialoga, almeno per certi versi, anche a livello tematico.
Cosa passa nella testa di un uomo convinto di stare per morire, quando ha tutto il tempo di ripercorrere la propria vita attraverso la galleria di volti, azioni ed errori che ne hanno fatto l’uomo che è? Cosa resta di una vita votata all’avventura e alla presunta indipendenza, quando i ricordi si fanno nitidi e le certezze più limpide? Quanto contano l’affetto dei propri cari e l’amore di una ragazza con cui forse le cose potevano andare diversamente? E mentre il ragazzo medita sulla propria superbia (si trova nei guai perché non voleva dire a nessuno dove andava), il film riflette sui concetti di tempo e di spazio e la gola strettissima diventa un luogo sterminato, come un deserto o un oceano, dove la mente può vagare senza barriere lottando strenuamente per restare lucida (eccezionale la sequenza della finta trasmissione tv immaginata dal ragazzo). Il film si tiene vivo, esattamente come il protagonista, ricorrendo a flashback, sogni e allucinazioni (e il regista, per dare diversa “consistenza” ai vari piani del racconto, ha lavorato con due diversi direttori della fotografia), dove l’uso della videocamera serve al protagonista per comunicare e non impazzire ma è anche un forte elemento narrativo e di linguaggio (funzionali le immagini frammentate con lo split screen).
Un film che non annoia – nonostante rimanga bloccato insieme al suo protagonista – e rimane asciutto, nonostante l’impeto visionario di molte sequenze, almeno fino alla scena che risolve l’intreccio dove (e questa è un’avvertenza per gli stomaci più sensibili che potrebbero essere turbati) non si risparmiano dettagli pur di avvalorare la tesi che l’uomo, più che a ogni altra cosa, è attaccato alla vita. Ma è un finale – senza svelare nulla – anche di grande commozione e tenerezza, in cui in un prorompere di emozioni tutta la vicenda acquista un senso grande e prezioso.

Raffaele Chiarulli – sentieri del cinema

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